Il sacerdozio del segreto esige intelligenza. Ogni parola pronunciata per spiegarmi è stata scelta da te non per una pagina, non per un consesso, non per altri. Stai dicendo a te stesso, e forse anche a me, ti stai fidando, sono parole denudate di orpelli introduttivi, e, anche se ci fossero orpelli introduttivi, sarebbero lì per farmi capire qualcosa di te, spogliate di cautele sull’eventuale giudizio, e, se le avessero, le cautele, sarebbero lì per narrare le tue ombre a me. Non narreresti così durante una cena, o forse sì, ma non con questo volto, perché durante una cena non saresti ascoltato così, le tue frasi, il timbro, lo sguardo, le spalle, i movimenti delle mani, la posizione dei piedi, il volume della voce, tu non avresti quest’esclusiva attenzione, o forse sì, ma, anche se ci fosse qualcuno disposto a questo spasmo relazionale, non sarebbe tenuto al segreto, al dubbio, al considerare quello che dici all’ interno di un più vasto paesaggio che riguarda tutto te.
Il tutto te inconoscibile che, nell’ indagine che non può essere conclusa nemmeno con la morte, viene ogni volta rimaneggiato, ripensato, particolareggiato e conosciuto meglio, ma mai completamente. È facile, il sacerdozio del segreto, se nessuna parola, nessuna informazione, nessuna affermazione saranno mai definitive di chi te le confida.
Forse non è sacerdozio del segreto, ma sacerdozio della complessità.