di Mario Visco su Prealpina
Ci vuole talento per sfilarsi dal côté dei benpensantiribaltando la prospettiva del giudizio e sedendosi,nuda e indifesa nel proprio dolore, sul banco degliimputati. Dimostrando che l’unica sentenza sensataè proprio quella che sgorga dalle ferite dell’imputa-ta. Sarà per questo che Anna Segre (nella foto), sta-sera, alle 18, allo Spazio Merini di Milano, in via Ma-golfa 30, non teme di presentarsi ai suoi lettori come«medico, psicoterapeuta, anche ebrea e in più lesbi-ca, perfino mancina».
La sua ultima silloge – La distruzione dell’amore (edi- to da Internopoesia) è un inno proprio a ciò che, al- l’apparenza, l’abbandono dall’amato, potrebbe far (ben)pensare. Prima dell’incontro di stasera, la poe- tessa, autrice di altri volumi tra cui le poesie in forma di prosa 100 punti di ebraicità e 100 punti di lesbicità, ha spiegato com’è nata questa raccolta prestando- si a una chiacchierata cominciata con una domanda per lei inusuale.
Quanto l’è costato essere mancina alle elemen-
tari?
«Non moltissimo (sorride) anche se nella mia vita mi
sono sempre sentita aldilà di un aldiquà affollato: a
scuola, quando si pregava, io restavo zitta perché
ebrea. C’era da vaccinarsi e mio padre s’impuntava
affinché le punture mi fossero fatte non nella braccia
ma nelle gambe: sono sempre stata sfasata di quei
millimetri decisivi per sentirmi come gli altri».
Una distanza feconda per un poeta…
«Ammesso ch’io lo sia davvero».
Si può definire la poesia un modo d’essere pri-
m’ancora d’una maniera di stendere parole sul-
la carta?
«Sì ma credo che la poesia sia una sfida da arte mar-
ziale in cui si cerca di reificare la parola. Quando si
riesce in quest’impresa, la poesia si perfeziona».
Le sue liriche sono figlie d’una relazione inter-
rotta dalla sua compagna: sono intrise di pas-
sione e tenerezza ma anche di un’analisi intro-
spettiva spietata, in cui emerge il punto di rot-
tura del rapporto. Ovvero quel braccio di ferro,
figlio del possesso, che alla lunga logora.
«Il potere è incompatibile con una relazione però è spesso presente e finisce con l’innescare tensioni dissimulate nel sesso, nel confronto verbale, nello scambio d’idee».
Lei scrive anche di fedeltà, parola estranea ai ti- mori di chi è vittima della relazione possessiva. «La fedeltà è naturale finché si pensa solo al proprio partner: è un confine cangiante, regolato dall’etica dei protagonisti della relazione. Io non ho mai tradi- to. Preferisco chiudere la relazione prima».
La relazione non può prescindere dal vissuto fi- liale. Leggendo le poesie dedicate a suo padre e a sua madre, emerge la ferita che Peter Schel- lenbaum definisce dei «non amati».
«Sì, è così. La distanza che mi separava da mio pa- dre, ebreo e costretto nascondersi fino al 1945 e quella che mi ha tenuto lontana da mia madre fino a non farmi desiderare d’essere genitore a mia volta, sono la mia ferita aperta. La curo con la dedizione di un medico e la tenerezza che m’è congenita. Ed è tra le ragioni della mie composizioni».
Ogni titolo delle sue poesie è traslitterato in
Ebraico. Perché?
«Perché l’Ebraico è una lingua a più dimensioni.
Mehashamaimm significa Dal Cielo ma è duale: si ri-
ferisce tanto al maschile quanto al femminile. E per
definire Omoaffettività si dice Hibat-Jonathan. Gio-
nata era l’amante di Davide: un amore solo maschi-
le, il che dice molto della regola socio-morale che
esclude le donne. Invece il termine ebraico è duale:
vale per entrambi i sessi».