Tutto quello che dirai sarà soggetto a interpretazione. Quello che decidi di raccontare, le parole che scegli per raccontarlo, la velocità con cui narri e le metafore che usi.
Tutto quello che farai dovrà essere considerato, come sei vestito, la tua igiene, la cura dei denti, quante borse porti con te, se sei puntuale, se alzi la voce, se imprechi, se piangi, se ridi, se profumi. Come mi guardi, come ti siedi, come gesticoli, la tua prossemica rispetto a me e quando ti avvii verso la porta.
Vorrei però sottolineare il fatto che l’interpretatrice ha una sua storia, sue nevrosi irrisolte (non si può garantire che un terapeuta abbia superato ogni sua problematica), ha il suo umore, magari cattivo, magari sopra le righe, un suo modo di intendere il dovere, l’etica, Dio, la politica, l’arte. E te.
Il cocktail tra l’idea di te che costei si fa e i manuali di riferimento si chiama interpretazione.
Cambia terapeuta e cambierà la tua narrazione. E, si sa, con una storia anche solo leggermente diversa, quelle porte scorrevoli possono cambiare tante cose. Ti rendi conto?
Interpretare è un potere, anche quando dici ‘solo’ secondo me.
Lo sappiamo, ci rendiamo conto,
noi sacerdotesse/ti,
noi maghe, noi sibille, noi come acqua nelle vostre anime brocca,
noi guardatori, sentitori, diagnosticatori,
noi ance vibranti nel suono della vostra voce,
noi che anche col silenzio tagliamo l’aria,
di che scettro terribile e fatale può essere la nostra parola?